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V13 “Questo è ciò che è, o dovrebbe essere, un processo: all’inizio si depone la sofferenza, alla fine si rende giustizia.”

Venerdì 13 Novembre 2015, Parigi è stata dilaniata da concomitanti attentati terroristici avvenuti rispettivamente al Bataclan, ai Bistrot (il Petit Cambodge, la Belle Équipe) e allo Stade de France.

Con V13 ci si riferisce al lungo, minuzioso processo tenutosi presso l’illustre palazzo dell’Île de la Cité (Parigi), tra il 2 Settembre 2021 e il 7 Luglio 2022.

Emmanuel Carrère era lì. Ha presenziato, in quanto inviato dell”Obs, a tutte le udienze (o quasi), scrivendo la cronaca giudiziaria di ciò che progressivamente, strato dopo strato, è emerso da quel concentrato di umanità che è stato il processo.

Ci si potrebbe chiedere chi fossero gli imputati presenti nel box, giacché degli effettivi assassini, lasciatisi esplodere in tanti coriandoli di carne, non ne è rimasto più nulla.

In realtà gli imputati sono una decina, ma “Il pezzo grosso del processo”, come lo definisce Carrère, è Salah Abdeslam, un giovane musulmano radicalizzato, appartenente alla cellula terroristica dell’Isis, e cresciuto nel quartiere di Molenbeek (Belgio), una zona pullulante di jihadisti, dove, per intenderci, il gruppo si

riuniva in bettole per fumare hashish, ubriacarsi, giocare a carte e guardare video di decapitazioni in Siria, godendone.

Un programma di radicalizzazione religiosa diverso da quello che ci si aspetterebbe da dei musulmani integralisti, ma tant’è.

Lui doveva uccidere e farsi esplodere, ma all’ultimo si è tirato indietro.

Pagherà per tutti i suoi compagni che invece lo hanno fatto.

Il libro si divide in tre parti: Le vittime, Gli imputati, La Corte.

Ho avuto la fortuna di assistere alla presentazione, avvenuta il 27 Marzo al teatro Piccolo. Ho ascoltato Carrère spiegarci l’intento di dare importanza al dolore delle vittime.

Pagine che ti torcono le viscere, quelle dedicate a loro.

Corpi calpestati, giovani smembrati a colpi di kalashnikov, urla, sangue, terrore, 131 morti e innumerevoli feriti che convivono da anni con incubi e disturbi post-traumatici.

Carrére non lascia indietro nessuno.

Questa è senza ombra di dubbio la fase più tragica del processo, seguita da una più tecnica e monotóna, sugli imputati e la logistica degli attentati.

Ma c’è un motivo: a teatro Carrère ci ha detto che si suole nutrire un interesse morboso per il male, ne è testimonianza il grosso seguito che riscuotono i thriller o i true crime.

Il male che ci attrae è però immaginario, letterario, fantastico.

Eppure, il male vero è banale, noioso, è un mistero povero, come nel caso dei nostri imputati.

<<C’est un mystère, mais c’est un pauvre mystère.>>

Ciò che invece sostiene Carrère in queste pagine, è l’anelito al mistero del bene, quello degli innocenti.

Ed è a loro che si indirizza il senso ultimo del libro, è la testimonianza del loro dolore che si cerca di trasformare in diritto.

A tal proposito, la sezione che più mi ha incuriosita, quella della Corte, oltre a svelare la sentenza finale, ci interroga su svariate tematiche giuridiche, talvolta di una certa ambiguità, trattandosi di legislazione antiterrorismo. Una questione interessante riguarda l’infliggere una pena per attentati non ancora compiuti, poiché, anche  se la giustizia non può essere preventiva, si parla di finalità al terrorismo; un’altra è l’esemplarità della pena favorita alla proporzionalità della stessa. Si parla inoltre di danno da lucida agonia.

Esemplari le parole di Bibal, che ci dimostrano come quella iniziale tragedia possa, tramite la giustizia, divenire catarsi.

“Per parecchie vittime è stato un sollievo deporre alla sbarra, perchè hanno avuto la sensazione di deporre il proprio dolore. La richiesta avanzata da Bibal al termine della sua arringa è che il danno da lucida agonia patito dalle vittime del 13 novembre, figuri, in forma autonoma, fra le motivazioni della sentenza e delle pene. Che quanti saranno dichiarati colpevoli siano condannati specificatamente anche per questo. Per aver contribuito all’uccisione di 131 persone, ma anche per aver concorso al terrore terminale patito dalla maggior parte di loro.

Questo è ciò che è, o dovrebbe essere, un processo: all’inizio si depone la sofferenza, alla fine si rende giustizia.”

A cura di Martina Montenero

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