“Il velo rivoluzionario”
“Donne, vita, libertà”
E’ questo lo slogan che, negli ultimi due mesi, riecheggia in Iran e nelle strade di Teheran durante le proteste generate dalla morte di Mahsa Amiri, 22enne curda prelevata dalla polizia morale della capitale iraniana, confinata in un centro di detenzione e uccisa per aver indossato in maniera non idonea l’hijab, tradizionale velo islamico. Velo imposto come simbolo della repressione della libertà femminile e che rappresenta la feroce dittatura morale iraniana, generata da un’onda di conservatorismo che vede, nel governo di Ali Khamenei, la sua più feroce proiezione. Un governo che, nella sua amministrazione, è ancora profondamente ancorato alla legge coranica e alla sua machiavellica ambiguità interpretativa, strumento secolare del patriarcato per perpetuare un’era di soprusi e misfatti tuttora impuniti. Ecco, quindi, che l’articolo 638 del codice penale islamico, che prevede, tra le altre cose, fino a 10 anni di carcere per chiunque non indossi correttamente l’hijab, diventa espediente per motivare una violenza ed efferatezza ingiustificabili. Per l’ennesima volta, la religione diviene strumento funzionale alla giustificazione della violenza, si va così a difendere l’indifendibile, in un gioco di spregiudicatezza e opportunismi in un’ottica in cui la morale del male fa da padrona.
Il velo, in questo panorama, si contraddistingue soprattutto per la sua specificità culturale: è quanto sostiene Camille Eid – giornalista, scrittore, direttore de “L’araba fenice” e già docente di lingua araba presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore – nell’incontro Iil velo rivoluzionario” presso il Collegio Marianum. In modo particolare, questo elemento della tradizione islamica presenta, nella sua applicazione pragmatica, una storia controversa. Eid ne cita alcuni passaggi, menzionando al principio alcuni versetti coranici, in cui Maometto recita: “Di’ alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne, e non mostrino troppo le loro parti belle eccetto quel che di fuori appare. E che si coprano fin sul petto…”. Dall’interpretazione delle parole del Profeta sino ai giorni nostri, l’imposizione del velo ha vissuto fasi alterne ed alcune eccezioni, incontrando appoggio e resistenze anche in merito all’ ubicazione geografica: se negli anni ’20, la Turchia aveva introdotto riforme per l’abolizione del velo, il Paese aveva sorprendentemente incontrato resistenze da parte delle fazioni islamiche più radicali, che hanno poi costituito parte preponderante dei Governi successivi.
Anche l’Iran, fino al 1979, ha adottato una politica moderata in merito alla questione, poiché la shari’ah stessa aveva tentato di abolire l’imposizione del velo. Tutto è cambiato, poi, nel periodo successivo al ’79, quando la presidenza dell’ayatollah Khomeyni ha imposto il velo come simbolo cardine della Repubblica islamica. L’uso del velo ha avuto poi un successivo allentamento tra il 1997 e il 2005, con la presidenza di Khatami, di orientamento riformista e moderato. Il successivo arrivo dei conservatori ha cambiato nuovamente le carte in tavola, prefigurando una nuova serie di restrizioni; limitazioni che, nel panorama politico ed economico, hanno portato a nuove proteste: nel 2009, in occasione del secondo mandato presidenziale, che ha determinato la cosiddetta onda verde delle sollevazioni popolari, e nel 2019 per il caro prezzi del petrolio. Le ripetute ed estenuanti sollevazioni popolari hanno condotto, in questi primi decenni del ventunesimo secolo, a stroncamenti del malcontento popolare sempre più brutali e sanguinosi, che hanno contribuito a portare la situazione socio-politica iraniana sotto l’attenzione della politica e dell’opinione pubblica internazionale. Ecco dunque il caso Amini, ma non solo. Centinaia di dissidenti e prigionieri politici ricevono l’esecuzione capitale ogni anno. Nell’ultimo report del 2021 condotto da Amnesty International, secondo quando riportato da Camille Eid, l’Iran si è reso responsabile di 114 condanne a morte, accaparrandosi il vergognoso terzo posto sul podio dei Paesi che eseguono più pene capitali. Un dato di fatto che dovrebbe orientare il focus sui diritti umani in ambito iraniano, questione già affrontata, in parte e forse superficialmente, tramite provvedimenti sanzionatori da parte dei Paesi Occidentali, tra i quali gli USA, che hanno, secondo lo stesso Eid, nella scala delle proprie priorità, ben altri accordi che riguardano, per esempio, l’agreement per limitare le risorse nucleari in Iran, stipulato nel luglio 2015 e ancora manchevole di applicazione in termini fattuali. Nell’ambito delle proteste, da una parte il Governo cerca di giustificarle menzionando un possibile coinvolgimento degli USA, ISIS, Israele. Dall’altra cerca di insinuare che queste proteste siano confinate all’estremo Oriente dell’Iran, alla zona a maggioranza curda (vero Iraq) a maggioranza araba (sud-est), per dare l’impressione del fatto che esse siano state scatenate da minoranze etniche che si ribellano al potere centrale, e non il popolo che si ribella al potere iraniano. Nonostante vi siano effettivamente partiti indipendentisti, l’autonomia, come sappiamo, non è la motivazione alla base di queste sollevazioni. Citando un’amica di Camille Eid, Marina, in asilo politico in Canada: “Il flusso naturale della storia suggerisce che questa rivoluzione crescerà, anche se è impossibile prevedere quando diventerà abbastanza forte ed edificata da far cadere tutto il sistema corrotto. Ma verrà il momento; non sarà così presto, ma i miracoli accadono nella storia, di solito non sono né facili né veloci. E hanno un costo altissimo”. Vite di donne. Vite umane.
A cura di Alessia Rigamonti