Un racconto di umanità nel cuore di un conflitto senza fine
Il mondo del cinema è pieno di film e documentari che raccontano. Ma sono pochi, pochissimi in verità, quelli capaci di scuoterci davvero. “No Other Land” è uno di questi.
Non si limita a informare: ci costringe a sentire. E, soprattutto, a non voltare lo sguardo.
Quando si affrontano conflitti antichi, profondi e logoranti — come quello tra Palestina e Israele — è fin troppo facile scivolare nella banalità, nei luoghi comuni o in una narrazione sterile. Restare umani di fronte a ciò che ci viene da decenni presentato come irrimediabilmente e drammaticamente diviso sembra quasi utopico.
È proprio questa profonda, straziante e controversa divisione il cuore pulsante del documentario.
Realizzato da Basel Adra, attivista palestinese, e Yuval Abraham, giornalista israeliano, “No Other Land” è molto più di un’opera cinematografica meritevole dell’Oscar: è un atto di resistenza e, ancor di più, di relazione.
Una relazione che nasce dal coraggio di riconoscere “l’Altro” non come nemico, ma come essere umano. Un presupposto per ogni relazione che nasconde una rivoluzione silenziosa. Basel documenta con lucidità e dolore la lenta distruzione di Masafer Yatta, un’area della Cisgiordania dove le comunità palestinesi vengono annientate, casa dopo casa, in nome dell’espansione militare e della colonizzazione.
Nel suo cammino incontra Yuval, un giornalista israeliano che sceglie di non girarsi dall’altra parte e di esserci. Di rischiare. Di schierarsi. Non con le armi ma con la voce, con la testimonianza, con il rischio personale di essere escluso, odiato e risultare scomodo. Yuval ci ricorda che “l’Altro” non è un’idea, ma un volto. È una storia. È una persona. E se si sceglie di guardarlo negli occhi, nulla resta più come prima. Il docufilm racconta fatti realmente accaduti tra il 2019 e il 2023, prima ancora che il mondo si svegliasse e si accorgesse del dolore che impera in Palestina da anni, ignorato troppo a lungo dagli occhi dell’indifferenza globale. Il pregio più grande di quest’opera sta nella sua rinuncia a qualsiasi pretesa ideologica. Non offre proclami. Non cerca semplificazioni. È qualcosa di più raro e necessario: è profondamente umano.
E l’umanità, nel mezzo del genocidio, è il gesto più radicale possibile.
Il documentario costituisce un’autentica vetrina di verità scomode e dimenticate, indicando una via percorribile: quella di un dialogo che può nascere solo dal dolore condiviso, dal rispetto e dalla volontà politica e diplomatica internazionale.
Basel e Yuval ci lasciano un’eredità per niente leggera, forse scomoda, ma necessaria.
E ora tocca a noi scegliere se lasciarla, ancora una volta, sullo sfondo, sopraffatta dal rumore delle mille notizie.
La sovraesposizione mediatica a cui siamo sottoposti ogni giorno, infatti, genera quella che in psicologia viene chiamata “desensibilizzazione all’orrore”: più guardiamo, meno sentiamo. Più osserviamo distruzione, meno ne restiamo impressionati. L’esposizione ripetuta all’orrore ci rende assuefatti ed incapaci di provare empatia.
È come se, a un certo punto, smettessimo di “vedere” con sguardo critico le informazioni che ci raggiungono e iniziassimo semplicemente a “scrollare contenuti”.
In questa incomprensibile inerzia collettiva “No Other Land” ci offre un’alternativa preziosa: tornare a “vedere” davvero.
Resta allora sospesa una sola domanda: noi, spettatori privilegiati del mondo occidentale, siamo davvero pronti a disarmare lo sguardo? A non ignorare più? A scegliere il peso della coscienza al posto del conforto dell’indifferenza?
Perché la distanza ci protegge. Ma non ci assolve.

