IL DOPPIO VOLTO DI “THE HELP”

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La sera del 13 marzo si è tenuto nel Salone Gornati del Collegio Marianum un cineforum dedicato al film The help, scritto e diretto da Tate Taylor.

La pellicola, tratta dall’omonimo romanzo dal sapore dolceamaro di Kathryn Stockett, risale al 2011 e in poche settimane diventa un campione d’incassi, ricevendo tre candidature agli Oscar dell’anno seguente e il premio come migliore attrice non protagonista a Octavia Spencer.

La vicenda è ambientata nella prima metà degli anni ’60, nello Stato del Mississippi, uno dei principali teatri di tensione nella corsa per il Voting Rights Act (1965), che sancì il diritto di voto per tutti i cittadini americani, non senza incontrare resistenze e battute d’arresto. Il film porta lo spettatore dentro il microcosmo domestico delle famiglie bianche benestanti e delle loro domestiche afroamericane, rivelando un intreccio di potere, dipendenza e invisibilità.

Un telaio narrativo tutto al femminile: donne che combattono per altre donne, ma anche contro altre donne, lasciando per ben centocinquanta minuti gli uomini ai margini della storia.

La protagonista, Skeeter, è una giovane donna bianca borghese che, come una moderna Jo March, corre verso l’emancipazione personale e il sogno di diventare scrittrice. Un sogno che sembra infrangersi quando si rende conto di non avere storie proprie da raccontare, finché non alza lo sguardo e si accorge che, attorno a lei, vive una moltitudine di donne la cui voce è stata negata per troppo tempo. Donne che hanno cresciuto lei, la sua famiglia e quelle di tutta la comunità bianca, mantenendo in piedi mura domestiche spesso senza ricevere in cambio neppure un briciolo di gratitudine.

Dopo aver concluso gli studi a New York, Skeeter torna nella sua città natale e decide di dare a queste donne uno strumento potente: la parola. Come in una fiaba, la sua penna diventa il talismano con cui le domestiche afroamericane sperano di ottenere finalmente giustizia. È proprio questa narrazione quasi fiabesca a suscitare molte critiche: nonostante il successo al botteghino, The Help finisce per ribadire una retorica tutta occidentale, in cui ci si autoassolve presentandosi come salvatori di una comunità che, nei fatti, si continua ad assoggettare. Se da un lato Taylor riesce, con toni brillanti e pacati, a dar voce a una storia femminile troppo spesso sussurrata, dall’altro non riesce a restituire pienamente la centralità alla vera protagonista collettiva: la comunità afroamericana, vittima di violenze che nel film restano solo evocate e sfiorate. Non basta qualche inquadratura simbolica a rendere giustizia a ciò che accadeva davvero dietro quelle finestre decorate.

Il film si chiude con il monologo della prima domestica che decide di parlare apertamente:

“Nessuno mi aveva mai chiesto cosa provavo a essere me stessa. Quando ho detto la verità… Mi sono sentita libera.”

Una verità che, però, resta a metà: suggerita più che mostrata, mediata da uno sguardo che rimane esterno. Anche quando a parlare sono le donne afroamericane, la macchina da presa non cambia mai davvero registro: lo sguardo resta quello di Skeeter – e, di riflesso, il nostro. Questa distanza genera una dicotomia tra il “noi” della comunità bianca e il “loro” delle domestiche afroamericane, che non ottengono mai davvero una voce piena.

Una dicotomia che, a distanza di sessant’anni, continua a caratterizzare le logiche profonde delle ingiustizie contemporanee: violenze e stragi che spesso osserviamo da lontano, come Skeeter – estranei ed estraniati.


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