È tempo di buoni propositi,  Per riflettere

A Silvia e alla bellezza delle piccole cose

“Silvia, rimembri ancora

Quel tempo della tua vita mortale,

Quando beltà splendea

Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

E tu, lieta e pensosa, il limitare

Di gioventù salivi?

 

Sonavan le quiete

Stanze, e le vie dintorno,

Al tuo perpetuo canto,

Allor che all’opre femminili intenta

Sedevi, assai contenta

Di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il maggio odoroso: e tu solevi

Così menare il giorno.”

Parole struggenti e al tempo stesso piene di un vitalismo debordante. Pensieri in musica, che animano la mente di ognuno di noi, ma che solo un poeta come Giacomo Leopardi sarebbe stato in grado di disegnare con una delicatezza e un riguardo estremo verso quella fase dell’esistenza che tutti attraversano con inconscia speranza, ma che, una volta sfiorita, ci lascia soli, con un ricordo dolce e malinconico accanto e con tanta, troppa vita ancora addosso. Come la primavera.

Basta leggere le prime strofe di questa lirica per immergersi nella tersa atmosfera primaverile, pregna di suoni, profumi, incertezze. La primavera della nostra vita assomiglia agli occhi “ridenti e fuggitivi” di Silvia, è un lampo, un baluginare di sensazioni calde, intense, che ci traghettano lungo il fiume della nostra esistenza verso quel mare aperto e incontaminato che è il mondo. Sono tanti i pensieri che affollano la navigazione; le illusioni, le aspettative, i timori, ma è proprio la consapevolezza di non sapere ciò che ci aspetta a rendere l’attesa ancora più coinvolgente, a farci pensare che la chiave di tutto è lì, in questo tempo sospeso che assomiglia a un palloncino gonfio, pieno d’aria che potrebbe esalare in ogni momento da un forellino minuscolo di cui non ci siamo accorti.

 

“Che pensieri soavi,

Che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci apparia

La vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,

Un affetto mi preme

Acerbo e sconsolato,

E tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura,

Perché non rendi poi

Quel che prometti allor? perchè di tanto

Inganni i figli tuoi?”

La gioventù pare essere, per Leopardi, un aspro terreno di scontro, un campo di battaglia dove si rincorrono illusioni e battute d’arresto, sogni e amarezze. Ma se ci sforziamo di guardare a fondo, sotto ogni invocazione, anche nella descrizione della stessa morte di Silvia, ciò che rimane e assurge a baluardo di speranza è proprio l’amore per la vita. La vita spezzata di un’adolescente nel fiore dei suoi anni, la vita che resiste agli inganni della natura e alle trappole degli uomini; la vita che preme per uscire, così limpida, come un “perpetuo canto”, che penetra le pagine dense di fatica e impegno, gli “studi leggiadri” e le “sudate carte” del poeta.

È facile, talvolta, sentirsi lontani dalla pulsione vitale che è in ognuno di noi, svuotati rispetto a tutte le emozioni che abbiamo provato, ma che ora sembra ci abbiano solo sfiorato, lambito, come un’onda che si infrange e scivola via da uno scoglio. Leopardi ci insegna che momenti del genere costituiscono una costante della natura umana, tesa per disposizione innata verso qualcosa che non c’è mai qui ed ora, ma che è, nella nostra immaginazione, sempre presente in un futuro lontano e onirico, che probabilmente non ci toccherà mai. I “pensieri soavi”, le “speranze”, i “cori”, come sembrano abbaglianti quando sono visti da lontano e non devono fare i conti con il mondo così com’è. Eppure questo mondo di “diletti”, “amor”, “opre”, “eventi”, di cui anche il poeta tanto vagheggia, è costantemente accanto a noi, a volte così ciechi da non accorgercene e così disperati, poi, quando ci rendiamo conto la primavera è passata, o meglio, che la primavera c’è stata finché noi abbiamo irrorato con la nostra speranza i colori dei suoi fiori.

Non è la giovinezza a portare il “maggio odoroso” di cui parla Leopardi nella nostra quotidianità, siamo noi che restiamo vivi e aperti a coglierne ogni sfumatura, se solo troviamo la forza, giorno dopo giorno, di guardare ciò che ancora di bello ci sta intorno, di esserne grati e soprattutto di saper fondare le nostre speranze sulla bellezza delle piccole cose, sulla passione per la vita e sull’ amore. Non possiamo lasciar morire i nostri ideali, solo perché sembrano impossibili o assurdi da realizzare; solo perché temiamo che siano inesorabilmente destinati a frantumarsi in mille pezzi al sorgere del sole. Sta a noi essere in grado di proteggerli dal tempo e dall’ incuria: la felicità, il senso della nostra esistenza non vanno ricercate in un mondo diverso dal nostro. Ciò di cui abbiamo bisogno è già nell’intimo dei nostri cuori.

 

A cura di Elena Cafagna

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