Collegio e università

Bellezza intesa e fraintesa

Il 27 marzo 2019 il Collegio Marianum ospita la conferenza “Sul crinale della frontiera: il confine tra Messico-USA e le sfide geopolitiche”.

L’incontro si sviluppa sul fil rouge delle domande poste dalla Dott.ssa Siddi che trovano risposta nelle parole della giornalista e scrittrice Fausta Speranza e da Antonella Mori, docente di macroeconomia e scenari economici all’università Bocconi.

Il titolo della conferenza parla di confini: ma un confine è un muro che separa o un punto di incontro?

La risposta più naturale vede nel confine semplicemente un confine, sono gli uomini che ne stabiliscono il ruolo di difesa o punto di congiunzione. Ciascuno ogni giorno costruisce muri, confini, zone franche nella propria storia personale, anche gli uomini potenti lo fanno ed è così che cambiano le sorti del mondo.

Donald Trump, nel 2016, ha fatto di un muro uno dei punti fondanti del suo programma elettorale. Un muro che in America era già presente fin dal 1990 nella testa di uomo, George H. W. Bush, e che tre anni dopo, uscito dalla sua testa ha occupato 14 miglia della costa di San Diego. Trump ha preso il testimone, portando fieramente avanti l’opera del “muro della vergogna” con la sua politica protezionistica. L’attuale presidente degli Stati Uniti protegge il suo Paese, emblema di libertà, dalla povertà dell’America latina, perché, si sa, per essere liberi bisogna essere ricchi.

La situazione sud-americana verte in condizioni quasi apocalittiche, in particolare risulta emblematico il caso dell’inflazione venezuelana. La svalutazione monetaria degli ultimi anni è dovuta alla stampa di quantità di denaro al punto che lo stato, situato sulla costa settentrionale del Sud-America, è tornato a un’economia di baratto. Il Venezuela ha perso il senso del valore del denaro; si è arrivati a cambiare un dollaro con 200.000 bolivar.

Donald Trump erige un muro che prima di essere di mattoni è di non-idee. Il muro che separa gli USA dal Sud-America è il confine di chi vuol dare un volto al nemico, è costruito dalla pigrizia del non vedere cosa c’è oltre. È eretto dal cittadino medio che assorbe, senza soluzione di continuità, le idee che risultano più semplici, i pregiudizi asserviti ad una semplificazione della vita, ineludibilmente complessa, ma inevitabilmente seducente se ci si carica del diritto-dovere di accettarne la complessità. Il muro delle non idee resiste alla pressione silenziosa delle rivoluzioni, ha proprietà fonoisolanti perché le parole da una parte all’altra non vengano udite perché le parole non divengano mai un luogo di incontro.

Ha solo una piccola falla, talmente piccola da essere, però, in grado di cambiare gli equilibri economici mondiali: il muro ha un buco microscopico attraverso cui scorre una polvere bianca che porta l’euforia oltre il confine.  È la zona più conosciuta e ricercata del muro. Tutti quanti sanno che c’è, ma quando ci si passa di fronte è bene voltarsi dall’altra parte. È una di quelle leggi sociali implicite: non si dice, ma si sa.  La falla del muro è l’unica zona di comunicazione tra i due mondi che stanno al di là delle sue facce, cosicché il narcotraffico e la violenza a cui è legato sono la favola sporca del Messico che arriva negli USA e in Europa come un mito distante.  

Ma cosa c’è davvero oltre il muro? Un Paese scisso tra due anime: il Messico in bilico tra bellezza e problematicità. Lo stato federale, esteso per la massim parte nell’America Settentrionale, è lacerato da una guerra civile che uccide ottanta persone al giorno, in una progressiva climax di violenza. La guerra messicana è chiamata “guerra della droga”.

Il Messico è, infatti, uno tra i maggiori produttori di droga al mondo; nelle toilette della nostra Europa si stendono le strisce bianche della guerra messicana, ben lungi da essere bandiera bianca di pace. Questa è la parte del Messico in luce. Sotto l’occhio di bue di tv e media abbiamo la violenza, il narcotraffico, l’omertà. A chi si fa carico dell’oneroso onore di cercare nell’ombra sono svelate le bellezze intense, intese e fraintese, del Paese dei paradossi. A questi si svelano i colori intensi, molto oltre il bianco ottico della cocaina, i sapori forti, ben al di là del sapore del sangue della guerra civile, la spiritualità e la denuncia delle donne che travalicano gli occhi omertosi che abitano le strade di Acapulco, Tulum, Città del Messico. Della parte del Messico in ombra poco è quello che ci arriva, la complessità viene omessa, la realtà di un Paese profondamente e contradditorio viene semplificata, stereotipata, per mostrarci un Messico tipizzato di bellezze e misteri emendati.

Ciò che rimane, eredità del nostro immaginario, è la bruttura, il disincanto. La conferenza del ventisette marzo ha portato chi sedeva in Sala Gornati sul crinale della frontiera, tra bellezza e dramma, nella destabilizzante consapevolezza di quanto ci sia oltre a ciò che l’informazione ci propone e propina. In una luce impietosa, terribilmente onesta, il Messico emerge molto oltre i luoghi mentali in cui si cerca di imbrigliarlo, nella più cruda verità di corrotta bellezza.                                                           

A cura di Angela Macheda

 

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